TARANTO – La prospettiva di una dismissione progressiva del centro siderurgico ex Ilva di Taranto non si configura unicamente come una minaccia di vasta portata sul piano industriale e ambientale, ma rievoca altresì dinamiche economiche complesse già osservate nel passato recente del territorio, in particolare il fenomeno di “dumping del lavoro”. Questo scenario, che ha inciso significativamente sulla comunità ionica già negli anni ’90, rischia oggi di ripresentarsi con intensità amplificata, riproponendo, e questa è un’aggravante di rilievo, una potenziale discontinuità generazionale nell’occupazione, dalle conseguenze ancora più profonde.

Negli anni ’90, il processo di ristrutturazione della siderurgia italiana, caratterizzato dalla transizione da Italsider a Ilva e dalla privatizzazione, fu affiancato da consistenti programmi di prepensionamento ed esodo, facilitati dalla Legge 181/89. L’obiettivo era la razionalizzazione degli organici, tuttavia, il risultato per migliaia di lavoratori fu spesso problematico. Molti, pur beneficiando di un’uscita protetta e anticipata dal mercato del lavoro, si trovarono o cercarono di reinserirsi nel contesto occupazionale, spesso in modo improprio o non regolamentato, trovando un mercato impreparato e incapace di assorbire le loro elevate competenze specialistiche e la loro esperienza.

La riconversione professionale si rivelò spesso un percorso accidentato, e si così verificò un generale ribasso delle condizioni lavorative. Il reinserimento, sovente tramite contratti atipici o mascherati, avveniva con retribuzioni ridotte e minori tutele, in un contesto di ampia disponibilità di manodopera costretta ad accettare condizioni sfavorevoli pur di evitare la disoccupazione cronica o persistente o depressiva (a livello individuale). Si consolidò una sorta di “forza lavoro di riserva” che, in modo implicito o esplicito, esercitava una pressione al ribasso sul costo del lavoro, contribuendo ad aumentare la fragilità sociale.

Il contesto degli anni ’90 innescò una prima, complessa discontinuità generazionale. Numerosi giovani dell’epoca, che aspiravano a un impiego decoroso e stabile, spesso nella speranza di ereditare le posizioni di familiari nella grande industria, si trovarono improvvisamente privi di prospettive definite. Ciò generò un senso diffuso di alienazione e disillusione, aprendo le porte della disoccupazione di lungo periodo e, in alternativa, della emigrazione o dell’accettazione di lavori precari e lontani da aspirazioni e qualifiche. L’interruzione di un ricambio generazionale organico nel settore industriale procurò un enorme vuoto, alimentando incertezza e sfiducia nel futuro del territorio.

Oggi, la minaccia di un nuovo e più esteso dumping del lavoro è tangibile. Se è vero che le proiezioni attuali indicano una perdita stimata di circa 25.000 posti di lavoro a livello locale, includendo dipendenti diretti, indotto e vieppiù la generale contrazione del mercato, l’impatto sul tessuto socio-economico di Taranto e dei comuni limitrofi (Statte, Massafra, Crispiano, Montemesola, Grottaglie e altri dell’hinterland) si preannuncia considerevole. A differenza degli anni ’90, quando, pur tra varie difficoltà, esistevano ancora margini di adattamento, oggi Taranto si confronta con la deindustrializzazione forzata in un quadro globale e nazionale già complesso e privo di alternative.

La dinamica evolutiva che si prospetta adesso per Taranto è, in effetti, analoga a quella passata, ma con una intensità amplificata. La notevole eccedenza di forza lavoro in cerca di occupazione in un’area circoscritta acuirà certamente la concorrenza e la competizione per ogni singola opportunità. Tale situazione eserciterà una pressione al ribasso sui salari e favorirà l’adozione di contratti meno garantiti da parte delle poche nuove realtà imprenditoriali che potrebbero emergere o resistere, erodendo significativamente il potere contrattuale dei lavoratori.

Le competenze specialistiche acquisite in decenni di attività siderurgica sono difficilmente trasferibili ad altri settori senza l’implementazione di programmi di riqualificazione professionali su larga scala. In assenza di interventi efficaci in tal senso, migliaia di ex operai potrebbero essere costretti ad accettare impieghi meno qualificati e meno retribuiti, scivolando verso una condizione di difficoltà reddituale. Questa situazione di disagio, unita alla tendenza di quel mercato che ha mercificato il lavoro e ne ha imposto la flessibilità, potrebbe rendere i contratti a termine, i lavori interinali e le collaborazioni occasionali la norma, compromettendo l’equilibrio economico delle famiglie in modo sistemico.

Si prefigura, quindi, una seconda e probabilmente più severa discontinuità generazionale nell’occupazione a Taranto, che inciderà in particolare sulla fascia d’età dai 25 ai 35 anni. I giovani che nel 2025 si affacciano al mercato del lavoro e che ambiscono a un impiego decoroso e duraturo si ritroveranno di fronte a un’offerta d’occupazione significativamente ridotta. L’assenza di prospettive lavorative concrete e la previsione di un futuro incerto in una città in declino potrebbero generare danni ancor più gravi rispetto al passato. Una potenziale emigrazione di talenti giovani, una perdita irreversibile di risorse e capitale umani e un invecchiamento demografico ostacolerebbero qualsiasi tentativo di ripresa. Va tuttavia considerato che persino un flusso migratorio significativo potrebbe non essere sufficiente a compensare la totale assenza di opportunità sul territorio, rischiando di generare ulteriori scompensi sociali ed economici nelle comunità di destinazione e di origine, con ripercussioni sulla coesione familiare e sul supporto intergenerazionale, già fragili nelle situazioni di crisi.

Va riconosciuto che il quadro normativo degli ammortizzatori sociali odierno è più articolato rispetto agli anni ’90, e la Legge 181/89, attualmente gestita da Invitalia, mira a sostenere la reindustrializzazione delle aree di crisi. Tuttavia, è evidente che questi strumenti, da soli, potrebbero non essere sufficienti ad assorbire l’impatto di un decremento occupazionale di tale portata.

L’imperativo attuale è indubbiamente quello di prevenire una destabilizzazione sociale. E la strategia prioritaria per raggiungere questo obiettivo, al di là degli altri interventi congiunturali, risiede nello scongiurare il ripetersi del dumping sul lavoro e nell’evitare un’altra devastante discontinuità generazionale. Si rende indispensabile un piano “totale” per Taranto. Un investimento non solo finanziario, ma anche culturale e strutturale, in grado di delineare quel futuro produttivo e sostenibile che offra dignità e prospettive concrete ai lavoratori, impedendo che la “bomba sociale” si trasformi in una tragedia irreversibile per l’intero Paese.

Professor Raffaele Bagnardi
Sociologo del Lavoro


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Fonte:
https://buonasera24.it/news/cronaca/895887/ex-ilva-l-ombra-lunga-di-dumping-del-lavoro-e-salto-generazionale-dell-occupazione.html