TARANTO – «Quando ho scoperto di avere problemi di salute, ho avuto paura, una paura che credo non abbandoni mai nessuno di noi. Il timore è legato al fatto che sono tanti i colleghi che si sono ammalati e che ora non ci sono più». Giacomo Mastro ha 40 anni e da 22 lavora, tra edilizia e pulizia industriale, nell’appalto dello stabilimento ex Ilva. Nell’eterna diatriba tutta tarantina tra salute e lavoro, Giacomo soffre per l’uno e per l’altro.
«Nel 2022, a 37 anni, ho iniziato ad avvertire un intenso affaticamento e, di lì a poco, la visita medica del lavoro, un rumore sospetto ai polmoni, raggi e tac, e la diagnosi di Bpco, Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva. E poi diversi noduli polmonari, al momento benigni, ma che stanno crescendo, e potrebbero degenerare». Ha lavorato per ditte diverse dell’indotto: nell’area a caldo dell’acciaieria, tra gli Altoforni, l’Agglomerato e le Batterie che, com’è noto, sono tra i reparti con maggiore impatto ambientale, a causa di diversi inquinanti, potenzialmente cancerogeni. Oggi è dipendente della Gea Power perché nonostante la malattia non ha mai smesso di lavorare nello stabilimento: in questa nuova ditta finalmente ha trovato condizioni migliori. «In questo periodo il medico sta valutando se asportare i noduli: ho già sporto denuncia e ho avuto conferma del nesso tra questi e l’ambiente di lavoro. Per la Bpco attendo risposta: per ora mi tocca utilizzare ogni giorno broncodilatatore e cortisone».
Tra le ciminiere è arrivato nel 2003, quando la fabbrica era gestita dalla famiglia Riva. «Ci sono entrato a 18 anni, scegliendo la fabbrica all’attività di ristorazione di famiglia, perché pensavo che proseguire nel lavoro di mio padre, mi avrebbe tenuto lontano dai miei figli nei giorni di festa. Allora in radio, passavano la pubblicità di finanziarie che concedevano agevolmente prestiti ai dipendenti Ilva. Mi ci sono voluti pochi giorni perché mi rendessi conto che quella che mi sembrava la scelta migliore, nascondeva in realtà molti lati oscuri. Al tempo – ricorda Giacomo – le tute non venivano lavate nello stabilimento: le portavamo a casa con il carico di polveri mortali. E anche dal punto di vista della sicurezza era una giungla: durante le fermate per il rifacimento degli Altoforni, capitava spesso che operai di diverse ditte con differenti mansioni lavorassero nello stesso posto e poteva accadere per esempio che, mentre ero intento a smantellare un impianto elettrico, un collega fosse impegnato, sopra di me, in operazioni di saldatura o di taglio a cannello. Oggi posso dire che, per questi aspetti, abbiamo fatto passi in avanti».
E se la sicurezza è migliorata, le condizioni di lavoro restano comunque difficili. «Svolgiamo attività diverse in un unico stabilimento, dove i rischi sono comuni perché respiriamo tutti la stessa aria con sostanze subdole, che non vediamo ma che hanno effetti letali. Penso all’amianto, riconosciuto solo a chi ha fatto domanda entro il 2013». E infine Giacomo, l’operaio che non può scegliere né la salute né il lavoro, lancia un appello: «La siderurgia deve essere finalmente inserita tra i lavori usuranti, riducendo a non più di 25 anni la permanenza in fabbrica. Come in altri Paesi, forse, più avanti dell’Italia».
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Fonte:
https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/taranto/1744275/in-fabbrica-ne-lavoro-ne-salute-il-racconto-di-giacomo-operaio-indotto-ex-ilva-con-una-diagnosi-di-broncopneumopatia.html