Osservare la lunga lingua portuale dalla statale 106 scatena sentimenti di malinconia. Vedere quelle gigantesche gru quasi del tutto inattive e gli enormi spazi del molo polisettoriale quasi completamente vuoti e ricordare invece come fossero affollate quelle banchine un quarto di secolo fa offre la dimensione del declino di quello che doveva rappresentare il nuovo corso dell’economia tarantina. Siamo invece a raccontare un desolante e progressivo fallimento, bruciante delusione dopo gli entusiasmi sprizzati all’inizio del nuovo millennio.
Surclassato dalla concorrenza dei paesi emergenti e dalla vivacità operativa del vicino porto di Gioia Tauro, Taranto è confinata in una modesta periferia delle dinamiche geografiche ed economiche della portualità.
Del resto basta constatare gli effetti indotti della crisi: i piloti sono costretti a trovarsi spazi di mercato in altri porti, gli ormeggiatori sono praticamente fermi, i rimorchiatori sono in stato di agitazione. Eppure, come detto, il porto doveva rappresentare la svolta per virare verso una economia non più dipendente in modo quasi esclusivo dall’industria siderurgica. La crisi dell’ex Ilva, invece, ha trascinato con sé lo scalo portuale che in questi lunghi anni non è riuscito a strutturare una propria autonoma capacità di sviluppo, restando di fatto succube del crollo verticale delle movimentazioni legate all’attività del siderurgico. Le cifre della tabella che riportiamo in questa pagina sono fulminanti: si è passati da una movimentazione di quasi 41 milioni di tonnelate di merci nel 2011 a poco più di 12 milioni nel 2024. Una disfatta. Un fallimento che non può essere edulcorato con l’arrivo di qualche nave da crociera che alla città lasciano quasi nulla e ancora meno al porto. E all’orizzonte la ridefinizione allo studio del governo dell’intero sistema portuale italiano rischia di ridimensionare ancora di più il porto di Taranto.
Un sogno con gli occhi a mandorla
All’alba del Duemila, l’Ilva dei Riva registrava profitti mostruosi. Lo stabilimento era tirato quasi al massimo delle sue potenzialità e gli affari per la famiglia poi risucchiata nel vortice di Ambiente Svenduto procedevano a gonfie vele. Tempi d’oro. Anche per il porto, che godeva degli intensi traffici siderurgici.
Ma proprio in quegli anni a Taranto comincia a prendere forma concreta l’idea della diversificazione produttiva. Come? Proprio attraverso l’implementazione dei traffici commerciali al porto, movimentazioni quindi non legate all’attività dell’acciaieria. La grande occasione si presenta con il Governo Prodi. L’elemento chiave è l’accordo con il gigante taiwanese Evergreen per l’acquisizione della storica compagnia Lloyd Triestino. Il piano è chiaro: al colosso di Taiwan serve una compagnia italiana per incunearsi commercialmente nel mercato della ostile Cina. Lloyd Triestino è il grimaldello per scardinare i confini commerciali della Cina. È nell’ambito di questo scenario che ad Evergreen, fino ad allora di casa a Gioia Tauro, viene offerto il terminal di Taranto. Prodi mette sul piatto 100 miliardi di lire per adeguare il molo polisettoriale, allora riservato alla movimentazione della loppa di matrice Ilva e al traffico commerciale del pet coke appannaggio della famiglia Caramia.
Su queste basi l’accordo è fatto e si traduce nella costituzione di una società di scopo, la Taranto Container Terminal, affidata alle cure del manager Antonio Maneschi, rappresentante di Evergreen in Italia. Vengono assunte oltre cinquecento persone e questo peso, alla lunga, si rivelerà una zavorra che contribuirà dieci anni dopo al disimpegno di Evergreen da Taranto. Tct lavora sul molo, costretta tuttavia a convivere con le attività dei Caramia. Ma a ostacolare il decollo del gigante con gli occhi a mandorla è la mancata esecuzione dei dragaggi, senza i quali era di fatto inibito l’attracco delle navi porta container allora di ultima generazione. Un ostacolo strutturale alle logiche di mercato. Né a cambiare la rotta si rivela fortunato l’ingresso in Tct della multinazionale, con sede a Hong Kong, Hutchison Whampoa.
Cala così il sipario sull’esperienza asiatica che avrebbe dovuto proiettare il porto di Taranto in una dimensione davvero internazionale.
La via della seta
Nel 2019, però, si preannunzia una nuova svolta. Questa volta da Taiwan ci si sposta in Turchia. A Taranto sbarcano i turchi di Yilport, il gruppo della famiglia Yildirim, accreditato tra i primi operatori mondiali del settore. La cerimonia viene celebrata al Castello Aragonese, con la firma della concessione demaniale marittima per 49 anni. L’atto viene sottoscritto dal ceo della Compagnia, Robert Yuksel Yildirim, e dal presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio, Sergio Prete. Anche in questo caso viene costituita una società ad hoc, la Terminal San Cataldo SpA. Tutto ciò quattro anni dopo la messa in liquidazione della Taranto Container Terminal, i cui circa cinquecento dipendenti vengono presi in carico dall’Agenzia per il lavoro portuale, costituita nel 2016 per gestire le crisi degli scali di Taranto, Gioia Tauro e Cagliari.
Anche in questa circostanza grande entusiasmo e speranza che per il porto, nel frattempo trascinato dalla crisi del siderurgico, si possano schiudere nuovi orizzonti. I fatti, però, daranno ragione agli scettici che avevano salutato con prudenza l’accordo con il Gruppo di Istanbul. Le aspettative sono enormi: i piani di Yildirim prevedono di raggiungere 1 milione di TEU entro il 2025 per poi giungere alla capacità massima del molo polisettoriale di 2,5 milioni di TEU. Di più: nasce un promettente accordo di collaborazione tra Yilport e Cosco, altro colosso cinese dei traffici portuali. Taranto pensa già di entrare a pieno titolo nella controversa Via della Seta. Ma ad oggi, e siamo proprio in quel 2025 indicato come data-obiettivo, i traffici sono sporadici e quelle cifre appaiono irraggiungibili.
Eppure l’ombra della Cina ha continuato ad allungarsi sul porto di Taranto. Questa volta sullo yard Belleli: 540mila metri quadri sui quali mette gli occhi il gruppo Ferretti, maggiore produttore mondiale di yacht di lusso, controllato dai cinesi di Weichai. Per l’entusiasmo dell’allora governo Conte e del Movimento Cinquestelle. Un interessamento, quello dei cinesi, che tuttavia suscita inquietudine internazionale. In un clima di rinnovate tensioni, lasciare di fatto nelle mani della Cina il porto di Taranto, città che ospita una delle più importanti basi Nato del Mediterraneo, è motivo di apprensione. Prima Yilport-Cosco, poi Ferretti-Weichai: si preoccupa il Copasir, se ne occupa l’Aise (l’agenzia per la sicurezza e la protezione degli interessi politici, militari ed economici del Paese), si allertano gli Stati Uniti e il caso finisce anche sui tavoli della Commissione Europea. Il piano Ferretti, 200 milioni di investimento e 200 assunzioni, però non decolla. E così esattamente un anno fa la società saluta Taranto: «Nonostante gli sforzi profusi dalle istituzioni, i ritardi accumulati nel lungo iter approvativo e attuativo hanno costretto il Gruppo a rinunciare al progetto. Negli anni sono aumentati gli investimenti necessari e diminuite le contribuzioni pubbliche al programma, rendendone l’esito incerto ed eccessivamente oneroso per la società».
Dell’area Belleli restano i lavori di bonifica aggiudicati alla Sogesid, la società del Ministero dell’Economia incaricata anche di realizzare la cassa di colmata al quinto sporgente del molo polisettoriale.
La piastra non si è accesa
Doveva essere un altro dei punti di svolta delle attività portuali con significativo impatto sull’economia del territorio: la piastra logistica. Concepita come nodo di congiunzione tra mare, terra e ferrovia e base a servizio delle merci, la piastra è rimasta del tutto inutilizzata dopo essere stata realizzata grazie ad un project financing da oltre 200 milioni di euro risalente addirittura al 2001 e rimasta in concessione al Gruppo Gavio fino al 2022, quando l’Autorità Portuale l’ha ripresa a fronte di un pagamento di 40 milioni di euro. Ora è stata aggiudicata alla Vestas, che ne farà una base di stoccaggio per pale eoliche. Un destino molto diverso da quello che si era immaginato un quarto di secolo fa.
Ritorno al passato?
Con il porto che langue si attendono i nuovi assetti del sistema portuale italiano e la nomina del presidente dell’Autorità Portuale. L’auspicio è che la scelta ricada su una figura di alto profilo e di collaudate competenze e conoscenze in materia portuale; il timore è che la nomina finisca per essere un compromesso politico e così destinata ad essere assegnata a figure di estrazione politica in cerca di nuova collocazione. I nomi, in questo caso, non mancano. Sarebbe la pietra tombale su ogni speranza di rilancio per uno scalo che negli anni si è lasciato superare dalla concorrenza che non è rimasta a guardare. Paradossalmente, a iniettare linfa vitale al porto potrebbe essere la ripresa dell’attività siderurgica: esattamente il contrario di ciò che si pensava di realizzare venticinque anni fa. Legittima e illuminante, in questo senso, la presa di posizione del Propeller Club Port of Taras, per voce del presidente Michele Conte: «Ora più che mai, è necessario garantire l’azione di rilancio dello scalo jonico attraverso una virtuosa guida manageriale della Presidenza e della Segreteria Tecnico-Operativa. È essenziale che il Porto di Taranto possa giovarsi di figure tecniche che assicurino una leadership competente con professionalità acquisita nell’ambito della logistica in generale e in quella portuale in particolare. La totale estraneità alla competenza e alla conoscenza delle problematiche, alla storia recente del Porto ed al quadro prospettico delle progettualità in corso, non potrà che aggravare le attuali difficoltà che il porto sta attraversando».
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Fonte:
https://buonasera24.it/news/cronaca/880243/porto-storia-di-un-sogno-infranto.html